Lateralizzazione
Processo di lateralizzazione
Roberto Carlo Russo
Questo articolo è una piccola parte del nuovo libro Motricità con impostazioni innovative, pubblicato nel mese di maggio 2020
La ricercatrice australiana Lesley Rogers (1970), studiando i polli ha scoperto che la lateralizzazione
è comune a tutto il regno animale. Altri autori hanno riscontrato nei mammiferi la predominanza d’interesse visivo di un emi-spazio rispetto al controlaterale e in diversi uccelli l’uso predominante di un arto dominante per portare il cibo alla bocca, nelle scimmie la preferenza dell’arto sinistro in compiti di discriminazione visiva e tattile (Ettlinger G.,1961).
Possiamo affermare che la lateralizzazione è una condizione fisiologia nel regno animale.
La lateralizzazione è il processo di natura genetica che permette la strutturazione di due emisferi cerebrali simmetrici con attività differenziate, ma fra loro funzionalmente integrati.
La sua organizzazione asimmetrica è condizionata dall’azione di marker molecolari che agiscono nelle fasi embrionali precoci (14°-15° giorno nella razza umana). La distribuzione degli organi a destra o a sinistra dipende da questi marker. Questo processo si sviluppa a livello embrionale determinando la diversità funzionale degli emisferi cerebrali, lateralità emisferica, che influenzerà la lateralizzazione somatica.
Emisfero sinistro è specializzato in Linguaggio Abilità logico-matematiche – Ragionamento Analisi delle caratteristiche dell’esperienza Categorizzazione delle esperienze Strategie cognitive | Emisfero destro è specializzato in Emozioni Creatività – Immaginazione – Analisi visiva Rappresentazione mentale spazio-temporale Riconoscimento volti ed espressioni mimiche Percezione della globalità di una struttura spaziale |
Lateralizzazione visiva
Nella specie umana la vista è progredita anche in rapporto al processo di lateralizzazione.
La lateralizzazione visiva è un’asimmetria strutturale delle funzioni visive, derivata dallo sviluppo della lateralizzazione nei due emisferi cerebrali.
Esistono nell’uomo alcune forme di lateralizzazione visiva:
Preferenze nelle direzioni di sguardo. Di fronte a compiti spaziali e verbali in merito ad abilità ed interessi intellettuali di natura scientifica e umanistica del soggetto, si è constatato che la dominanza di un emisfero piuttosto dell’altro è in rapporto sia al tipo di problema proposto sia alla tendenza caratteristica di ogni individuo di “usare” un emisfero rispetto all’altro (Gur&Gur, 1977).
Spostando lo sguardo a sinistra si attiva l’analisi delle strategie nell’emisfero destro, a destra quelle dell’emisfero sinistro (Gross et al, 1978).
Preferenze nella relazione tra campo visivo e mano. Per quanto riguarda la presa bimanuale di un singolo oggetto (Le&Neimer 2013) hanno rilevato che vi è una preferenza nel campo visivo sinistro e hanno verificato che è l’emisfero destro ad averne il controllo senso-motorio. In relazione alla presa mono manuale gli stessi autori (2014) hanno rilevato, nel dominante somatico destro, un vantaggio dell’emisfero sinistro nell’analisi visiva degli oggetti in entrambi i campi visivi.
Lateralizzazione somatica
Il processo d’induzione dalla lateralità assiale (genetica) alla lateralità distale (acquisita) si realizza nel corso del secondo anno e nella norma si impronta il suo orientamento si acquisisce entro il 24 ° mese per poi procedere negli anni successivi con eventuali modifiche.
Sulla base di questi processi risulta importante conoscere il percorso evolutivo fisiologico del processo di lateralizzazione del bambino e l’atteggiamento educativo dei modelli di riferimento familiari e sociali.
Il processo di lateralizzazione è influenzato da diversi fattori: genetici, condizionamento ambientale, scelte personali di adattamento agli stimoli. La dominanza emisferica sinistra che realizza la somatica destra, pur rappresentando il 90% degli individui, può essere relativa, giustificando una notevole possibilità di varianti nel complesso funzionale svolto dai due emisferi. Secondo Subirana (1969): 25% dominanza emisferica sinistra completa (somatica destra), 65% dominanza emisferica sinistra relativa, 10% dominanza emisferica destra completa (somatica sinistra).
La ricerca (Russo, Magnaghi, Marazzini, 1989), indagando la lateralità innata e quella acquisita e la loro espressività (completa e incompleta), in un campione di 800 bambini dai 3 agli 11 anni, per la mano, per il piede e per l’occhio, ha evidenziato trentadue combinazioni possibili tra lateralità destra, sinistra, completa o incompleta per la mano, il piede e l’occhio. Queste trentadue variabili subiscono modifiche nel percorso evolutivo, raggiungendo due apici, uno a 4-5 anni (sviluppo del disegno) e uno a 7-8 anni (sviluppo della grafia), per poi stabilizzarsi a 8-9 anni e rimanere tali anche nella età successive.
In una mia casistica su 1081 casi venuti all’osservazione per problematiche neuropsichiche, escludendo 219 casi inferiori ai 24 mesi, sono stati inclusi nella ricerca 858 individui di età compresa tra 2,1 e 16.1 anni. Tra questi 261 (30,28%) hanno presentato problemi di organizzazione del processo di lateralizzazione così distribuiti:
- Ritardo di acquisizione della lateralità (dopo i 24 mesi) 63,08%
- Sinistra innata – destra acquisita = 36,54%
Tra questi 261 casi, 61 presentavano una buona e frequente capacità della mano non dominante.
11 casi (nella fascia 4-6 anni) usavano nel disegno la mano sinistra nello spazio sinistro e superata la linea mediana, usavano la mano destra nello spazio destro, confermando di non avere ancora superato la linea mediana che nella norma viene superata tra gli 8-10 mesi.
Da quanto espresso, in accordo con le ricerche fatte a partire dagli anni 1950, va rimarcato che il processo di lateralizzazione non è semplicemente la prevalenza di una mano rispetto all’altra, ma è un continuo processo evolutivo corticale, motorio e cognitivo che acquisisce competenze sulla base del tipo di esperienze, apportando modifiche dell’organizzazione spaziale, delle modalità di attenzione e concentrazione visiva sia nella fase evolutiva che nell’adulta, periodo questo ultimo in cui è ancora possibile in casi di particolare necessità (danni fisici o carenza dell’arto dominante), una modifica organizzativa e funzionale della lateralità.
La possibilità di validi risultati evolutivi ha le basi nella corretta armonia tra il processo intenzionalità-percezione-valutazione spaziale-organizzazione motoria-risultato soddisfacente, tutto questo processo avviene per la stretta correlazione tra i due emisferi cerebrali e la relativa differenziazione funzionale che è l’essenza del processo di lateralizzazione.
Purtroppo la storia ci insegna che ancora oggi riscontriamo in alcuni ambienti e anche gruppi sociali la spinta ad usare la mano destra (da non sottovalutare che l’ostracismo ai sinistri ha generato l’aspetto sinistro, il tiro mancino, la mano del diavolo e dai la mano bella); il mancinismo è stato spesso considerato una menomazione da correggere. I musulmani considerano haram (= proibito) mangiare con la mano sinistra. Durante il ventennio fascista tutti i sinistri venivano rieducati a destra.
Il ritardo del processo di lateralizzazione condiziona un ritardo del numero di neuroni attivati per la mano lateralizzata, pertanto un ritardo dell’acquisizione dell’uso selettivo delle dita, minore abilità della mano, carenza dei processi cognitivi, diminuita capacità creativa. Va inoltre considerato che le abilità motorie sono strettamente correlate con l’organizzazione spaziale, la possibilità di movimento presuppone una valida conoscenza corporea e spazio-temporale.
Un ritardo o alterato gioco funzionale tra innato e acquisito, può determinare una difficoltà di trasformazione dal tridimensionale (modalità di vita reale) al bidimensionale (rappresentazione grafica del disegno e della scrittura) e la possibilità di fattori facilitanti la genesi dei disturbi specifici degli apprendimenti scolastici (DSA).
La sensibilizzazione verso questo importante processo evolutivo è praticamente inesistente o solo raramente praticata da parte di persone preparate. In famiglia, quando il bambino si approccia all’autoalimentazione, la mamma mette un cucchiaio a destra, di certo non uno a destra e uno a sinistra, alla scuola dell’infanzia il pennarello viene messo a destra; questi sono condizionamenti passivi, mentre quello attivo è la imposizione ad usare la destra. In parte dei casi le grandi potenzialità adattative del nostro cervello superano la difficoltà del condizionamento, ma spesso si innesta un problema di orientamento spaziale che successivamente si concretizza nel passaggio dalla tridimensionalità alla bidimensionalità, nella differenziazione tra destra e sinistra in situazioni di specularità, nella scelta più appropriata nella situazione contingente e nella rappresentazione mentale dell’organizzazione spaziale esterna.
Nella scuola dell’infanzia potrebbe essere fatta una valida sensibilizzazione per indurre un rispetto organizzativo della mente infantile, evitare problematiche conflittuali successive e permettere un accesso più fisiologico alla scuola primaria di primo grado. Tramite la numerosa stampa esistente, potrebbe essere effettuata una sensibilizzazione familiare su ampia scala.
Nell’ambito sanitario raramente vengono annotate informazioni sul processo di lateralizzazione, di norma la lateralità è segnata se è sinistra, mentre la lateralità destra viene data per scontata; nulla emerge sul potenziale conflitto tra innata e acquisita e sul ritardo di acquisizione.
Learn MoreIl significato dell’ intervento psicomotorio
Roberto Carlo Russo
Tratto in parte da: R.C. Russo. Psicomotricità. C.E.A., Milano, Cap.4, pp. 163-165, 2018
La diagnosi e la terapia vanno affrontate nell’ottica del problema bambino-ambiente, l’intervento infantile impostato in un’ottica centrata esclusivamente sul bambino ha fatto il suo tempo dal punto di vista scientifico (Bowoby, Greenspan, Siegel, Stern, Cramer, Palacio-Espasa e tanti altri), ma purtroppo ancora troppo disatteso nell’applicazione pratica.
L’intervento psicomotorio, pur nel rispetto del bisogno terapeutico del bambino, andrà condotto in stretta correlazione con la situazione ambientale familiare e sociale, con l’età, con il tipo delle esperienze intercorse, nel rispetto delle potenzialità, del vissuto e delle motivazioni del bambino.
Tra il processo maturativo, le conoscenze e il vissuto delle esperienze vi è una interdipendenza, a tal punto che una carenza dell’uno determina un conseguenziale riflesso nell’altro; un danno neurologico può limitare le capacità motorie e cognitive e condizionare vissuti corrispondenti alle limitazioni, con il risultato di frustrazioni nei rapporti con l’ambiente, di carente potenzialità di sviluppo, di facilitazioni dell’instaurarsi di meccanismi difensivi e di dipendenza, di limitazione dell’autonomia e di comportamenti facilmente incistati in stereotipi.
Il supporto e l’aiuto educativo ai modelli permetterà di capire le difficoltà, accettare alcuni limiti, adattarsi alle nuove esigenze evolutive e innestare opportuni stimoli.
Nei disturbi relazionali, le problematiche di rapporto investiranno le modalità d’essere dell’individuo e si potranno facilmente riflettere sulla espressività motoria e sulle procedure d’approccio cognitivo. In tali casi la situazione sarà ancora più complessa, per il trattamento del problema, in quanto i modelli, prevalentemente responsabili, richiederanno un comportamento adeguato alle potenzialità, ma che non potrà verificarsi a causa del disturbo relazionale.
L’intervento psicomotorio dovrà permettere l’elaborazione delle problematiche relazionali, nel rispetto della globalità dell’essere, sia nei suoi aspetti motori-cognitivi-relazionali, sia nel rispetto delle caratteristiche personali e motivazionali del bambino.
L’obiettivo dell’intervento è quello di favorire una evoluzione che si basi sul principio di armonizzare tra loro le diverse competenze, in modo tale che il vissuto dell’individuo sia ad esse proporzionale e che il processo di autonomia possa procedere nel rispetto e adattamento al vivere sociale. Si dovrà tenere in debito conto la potenzialità recettiva della terapia in rapporto all’età del soggetto, alla motivazione del bambino, alla disponibilità dell’ambiente a collaborare, affinché sia realizzabile il tentativo di ricostruire ed adattare una struttura della personalità sempre più orientata verso una norma.
Per adempiere a queste premesse, la terapia dovrà consentire al bambino di vivere concretamente le problematiche al fine di ricostruire, in modo migliorativo, quelle esperienze e relativi vissuti delle fasi evolutive in cui sono sorte le problematiche o di stimolare lo sviluppo delle competenze non ancora acquisite (Russo, 1988).
Le dinamiche terapeutiche verranno vissute in uno spazio ed in un tempo corporeamente agito dal paziente e dal terapista per favorire la massima pregnanza di ogni attività esperita.
Il raggiungimento di questi obiettivi richiederà l’impostazione di un setting specifico basato sull’agito a mediazione corporea e una figura terapeutica all’uopo preparata.
Learn MoreOrientamento delle personalità infantile
Roberto Carlo Russo
Tratto in parte da R.C.Russo. Psicomotricità, C.E.A., Milano, 2018
I risultati dell’interrelazione tra le caratteristiche di un genitore e le risposte comportamentali del bambino mi hanno stimolato a ricercare le tipologie di orientamento della personalità infantile di più frequente riscontro (Russo 1997). Uso il termine orientamento in quanto le caratteristiche della personalità in fase di formazione sono recettive a cambiamenti consistenti per variazioni ambientali, per l’avvicendarsi di modelli familiari e sociali, per il vissuto delle esperienze e per eventi particolari di significativa incidenza sulla vita del bambino.
Con il seguente elenco non intendo definire una organizzazione patologica, ma un tipo di organizzazione neuropsicologica e di indirizzo delle modalità d’essere nella relazione con gli altri che, se perdurano nel tempo, impostano una stabilità nella strutturazione della personalità. Questi orientamenti possono assumere diverso gradiente di espressività, i casi con caratteristiche molto marcate rappresentano dei quadri limite tra la norma e la patologia e dovrebbero essere controllati come casi rischio. Se tali connotazioni si acuiscono nel tempo potrebbero indirizzarsi in senso patologico.
Nell’individuare diversi tipi è stata posta particolare attenzione alle caratteristiche effettivamente dominanti e tipizzanti il comportamento. Sono stati esclusi dalla ricerca i casi di patologia a genesi organica, cromosomica, genetica, le insufficienze mentali e tutti gli individui in cui seri eventi esterni, quali prolungate e precoci ospedalizzazioni, istituzionalizzazioni, gravi traumi fisici, allontanamenti prolungati dal nucleo familiare, abbiano potuto determinare effetti particolarmente gravi nella vita del bambino.
Si è cercato di evidenziare (a partire circa dai 2-3 anni) in ambiti familiari potenzialmente normali, le frequenti e precoci variabili che potrebbero in seguito organizzarsi in senso patologico. Sono stati valutati 93 bambini (dai 2,7 ai 14,5 anni; media = 6,5 anni) figli delle coppie genitoriali relative alla ricerca fatta sulla tipologia dei modelli parentali. La valutazione è stata fatta ricostruendo le caratteristiche del comportamento dai 2 ai 3 anni.
Norma
Sono individui sani con un’evoluzione armonica della personalità e con buone capacità di adattamento nelle diverse situazioni ambientali.
1. Dipendenti – Insicuri
Scarsa autonomia, carente impegno evolutivo, facile sudditanza, scarsa fiducia del sé, facile ansia, frequente ritiro in situazioni particolarmente impegnative, di norma scarso impegno nelle grandi attività motorie.
2. Ipermotori
Grande quantità e abilità nell’attività motoria, spiccata autonomia, tendenza al ruolo di leader, alta carica vitale, ricerca di alternative intelligenti alle frustrazioni, frequente pluralità di interessi.
3. Impulsivi – Reattivi
Domina un Es esplosivo, intolleranti alle frustrazioni, facili atteggiamenti infantili, risposte aggressive esasperate, difficili rapporti con i coetanei, tendenza a governare l’ambiente, facili oscillazioni tra momenti reattivi e depressivi, carente autonomia.
4. Ipoaffettivi
Rapporti superficiali con tutti, rare o assenti spontanee manifestazioni affettive, scarsa o assente disponibilità all’accettazione di manifestazioni affettive, tendenza all’isolamento, facili evasioni fantastiche, interpretazioni personali della realtà, carente adattamento alle modifiche ambientali.
5. Conflittuali
Dominati da frequenti conflitti tra Es e Super-Io, manifestazioni d’ansia e d’insicurezza in situazioni impegnative, facili regressioni, frequenti meccanismi difensivi nevrotici.
6. Perfezionisti
Domina un controllo esasperato dell’Io nei primi anni e successivamente del Super-Io sull’Es, frequenti meccanismi di rimozione e d’inibizione, molto adeguati alle richieste, ubbidienti e perfetti, rapporti di superiorità con i compagni, atteggiamenti di tipo adulto.
7. Iposociali
Domina l’Es incontrollato e incontrollabile, l’altro viene vissuto come un oppositore ai propri desideri, intollerante alle regole, tenta di imporre a tutti il suo volere, può essere anche reattivo e aggressivo.
8. Infantili
Emotività ed affettività immature in normali potenzialità evolutive. Tendono a comportarsi come bambini più piccoli, spesso capricciosi ed intolleranti alle frustrazioni, abili motoriamente, discretamente autonomi, sufficiente fiducia del sé.
9. Depressi
Scarsa quantità di attività motoria, carente motivazione per nuove attività e nuovi rapporti, pochi e superficiali rapporti interpersonali, carente reattività, tono dell’umore impostato verso l’indifferenza o la tristezza.
10. Controllati – Reattivi
Rispondono frequentemente alle frustrazioni con disinteresse, abbandonando l’attività o cambiandola, ma senza mostrare disappunto. In altre situazioni esplodono, per futili motivi, in scariche di aggressività specie autocentrata. Frequente è l’evasione fantastica.
11. Altri
Vi appartengono bambini di difficile o impossibile collocazione in un gruppo specifico per la presenza combinata delle caratteristiche sopra citate.
Learn MoreGrafia: riflessioni
Questo articolo è una piccola parte del nuovo libro Motricità con impostazioni innovative,
sarà pubblicato da C.E.A e uscirà tra qualche mese.
La realizzazione dei disegni e della scrittura si avvalgono ambedue di simboli, i primi prevalentemente personali, i secondi caratterizzati da un codice comunitario, ma ambedue con il significato in comune di comunicare agli altri le proprie sensazioni, idee, pensiero e richieste. Importante mantenere collegate queste due espressioni di comunicazione sotto il termine generico di grafia: disegno e scrittura.
Verso la fine del secondo anno o nel terzo compare l’interesse per la realizzazione di segni grafici su una superficie con l’uso di una matita o pennarello impugnati nello stesso modo del cucchiaio (impugno a cacciavite); di norma il bambino realizza i primi scarabocchi su un foglio. In queste prime fasi la pressione sul foglio non è costante ed è frequente la realizzazione di segni molto marcati e altri leggeri. In questa attività, per ora, il controllo della vista sull’operato grafico della mano è incostante. Il tratto realizzato non assume ancora alcun significato grafico ed è ad un livello di sperimentazione motoria.
I primi disegni del bambino appaiono essere un esercizio di apprendimento di controllo del segno grafico, ma in seguito realizzano una propria modalità di conoscenza e di vissuto che viene mostrata all’adulto non per conferma, ma per comunicazione, anche se si aspetta una risposta alla propria produzione. Anche dopo l’apprendimento del linguaggio scritto il disegno permane come espressione personale che racconta le esperienze e produce l’immaginario arrivando anche all’espressione artistica.
Ben presto questo scarabocchio assume caratteristiche circolari e il controllo della vista sulla mano in azione diventa più costante (scarabocchio circolare) e dopo qualche mese viene dato un significato (scarabocchio con significato): nasce la rappresentazione che nel corso degli anni conquisterà nuove capacità esecutive e la possibilità di esprimere il proprio vissuto.
L’espressione grafica è una condotta che richiede l’evocazione e la rappresentazione mentale di oggetti ed avvenimenti tramite i significanti di significati che verranno espressi per mezzo di simboli grafici. L’espressione grafica è pertanto un complesso processo simbolico che richiede oltre alla evocazione e rappresentazione mentale anche la sua traduzione in segni grafici. Tramite questa capacità, come per il gioco simbolico, il bambino riproduce ed elabora con creatività le esperienze vissute e le adatta alle sue capacità e alle sue necessità di rielaborazione, di compensazione e di potenziale realizzazione.
Il bambino traccia le rappresentazioni grafiche non come percepisce la realtà, ma in rapporto alle sue capacità e modalità di significare alcuni particolari e dare risalto o esclusione ad altri.
Sia nel disegno che nella scrittura, nella maggior parte dei casi, la realizzazione viene fatta a tavolino richiedendo una postura adeguata sia per il corpo che per l’impugno dell’attrezzo grafico. Nell’epoca attuale circa il 50 % dei bambini e degli adulti assume una posizione scorretta del corpo e della modalità di tenere la matita o penna, per carenze educative sia familiari che scolastiche; risulta pertanto opportuno richiamare alcuni dati.
Importante osservare la postura del soma che deve essere seduta con asse eretto privo di rotazione o flessione, distanza tra piano della sedia e quello del tavolo tale da permettere l’appoggio dell’avambraccio in modo che l’angolo con il braccio sia circa 90° e che il foglio possa essere orientato sul piano in modo facilitante l’esecuzione verso sinistra per l’uso della mano destra e verso destra per l’uso della mano sinistra. Le posture scorrette oltre a riflessi sulla realizzazione, determinano condizioni anomale del capo rispetto al rachide che, se protratte per anni, possono determinare disturbi muscolo-articolari e visivi.
L’impugno della matita realizzato tra primo e secondo dito, presa che gestisce il movimento, il terzo dito serve di appoggio e segue passivamente il movimento realizzato dai primi due. Ipertoni delle singole falangi o a tutta la mano creano eccessivo impegno neuro-muscolare e facilitano la difficoltà di gestione e l’affaticamento Posizione del capo in continuità rispetto all’asse corporeo, a giusta distanza dal foglio (circa 30 cm.) non inclinato lateralmente per evitare che i due occhi lavorino con focalità diversa.
Come si è visto nell’evoluzione del processo di lateralizzazione, la definizione più specifica della lateralizzazione si verifica quando il bambino alla scuola primaria deve controllare il segno grafico secondo il modello impartito e non più come libera espressione nel disegno. È l’esercizio di controllo non solo del segno grafico, ma anche della propria emozionalità e dell’impegno di lavoro.
La realizzazione di questi impegni risulta più progressiva e meno onerosa se viene richiesta come una volta, diverse pagine di astine, piccoli cerchi, gambette, elementi che non richiedono la comprensione di significati specifici; dopo qualche mese (esercitazioni necessarie per il controllo del tratto grafico) sarà più agevole passare alla rappresentazione delle lettere e a seguire le parole.
L’immediata richiesta di scrivere fin dai primi giorni le parole carica il bambino non solo per il controllo del segno grafico, ma anche per la comprensione e realizzazione dei significati. Questo impegno può essere eccessivamente oneroso per alcuni bambini, specie se all’accesso alla primaria non hanno mai imparato a scrivere qualche lettera o il proprio nome. L’ambiente sociale attuale è molto stimolante e la scuola dell’infanzia ha l’impegno di preparare la pre-scrittura, ma la progressione naturale per gli apprendimenti deve gratificare il bambino e non umiliarlo nei confronti dei compagni già competenti. La socializzazione (primo impegno scolastico) è anche procedere per gradi tenendo in considerazione che in un gruppo i singoli membri si differenziano anche per le competenze; educare è anche rispettare la diversità e le diverse competenze e necessità di apprendimento.
Necessità educative per la migliore realizzazione della grafia
Primo principio educativo
E’ la postura adeguata e la corretta presa dell’attrezzo grafico (matita, pennarello, biro, penna) Il primo dito è quello che ha il maggiore numero di neuroni motori rispetto alle altre dita, il secondo dito è quello che ha il maggiore numero di neuroni sensitivi rispetto alle altre dita; da non dimenticare e non sottovalutare l’importanza delle due prime dita per organizzare la pinza, schema che nasce spontaneamente a circa un anno.
Secondo principio educativo
E’ il rispetto della lateralizzazione che alla prima classe della primaria è in fase di assestamento.
Intervenire a modificare l’indirizzo acquisito della lateralità, significa intervenire anche nei processi di comunicazione tra diverse aree (analisi percettiva, programmazione motoria, esecuzione, impegno emozionale, valutazione del risultato) e la possibilità di creare difficoltà di comunicazione e di progressione evolutiva.
Terzo principio educativo
è permettere e consigliare di tenere il quaderno orientato a sinistra (30°-45°) per l’uso della mano destra, orientato a destra (30°- 45°) per l’uso della mano sinistra. Questi orientamenti del quaderno escludono schemi più impegnativi e di maggiore consumo energetico proprio nelle fasi di apprendimento. Con il quaderno mantenuto in asse rispetto al corpo, il bambino per scrivere all’inizio della riga deve effettuare un movimento adduttorio e in seguito, per la progressione sulla riga, un movimento di spostamento laterale orizzontale che richiede l’intervento correttivo in senso posteriore della spalla. Per contro il quaderno orientato a sinistra o a destra permette per lo spostamento lineare solo una rotazione dell’omero. Da non sottovalutare che spesso l’adulto per maggiore comodità (direi funzionale) tiene girato il quaderno.
Gli studi sempre attuali di Ajuriaguerra e collaboratori (1971,1978, 1979) sulla evoluzione della grafia e relativi disturbi, hanno guidato gli studiosi verso una sempre migliore comprensione della problematica. Ajuriaguerra ha riconosciuto la fase precalligrafica, età di 6-8 anni, caratterizzata dalle difficoltà di esecuzione, la fase calligrafica, dopo gli 8-9 anni, caratterizzata dalla padronanza dell’uso della scrittura, la fase postcalligrafica, nell’età preadolescenziale e adolescenziale, contrassegnata dalla personalizzazione della scrittura.
Ajuriaguerra ha anche riconosciuto che la scrittura subisce modifiche non solo per l’età, ma anche per il sesso, la motivazione, per i condizionamenti ambientali, per le reali competenze della fine motricità e per problematiche di lateralizzazione. Questo autore ha individuato tre alterazioni tipiche: disorganizzazione spaziale degli elementi nella pagina, alterazioni da carente controllo della fine manualità (disprassici), errori nella forma dei segni della scrittura.
La valutazione della realizzazione grafica va fatta dopo la fase di apprendimento che di norma è a fine seconda elementare, ma può essere dedotta la futura difficoltà della scrittura anche dalle difficoltà di controllo grafico nel disegno del bambino di 4-5 anni.
La frequenza della disgrafia è variabile in rapporto al campione, alla lingua, al tipo di valutazione, per la lingua italiana A.I.D. (Associazione Italiana Disgrafie) su un campione di oltre 2200 alunni alla fine della quinta primaria di primo grado hanno riscontrato il 20,7 % di disgrafici trai quali 5,5% gravi, 80 % maschi. Tra quelli esaminati solo 0,7 % era stato segnalato dalla scuola, confermando che il fenomeno è decisamente sottovalutato o ignorato per carenza formativa.
Il processo di lateralizzazione e la grafia svolgono due ruoli essenziali nello sviluppo del bambino: il primo per gli effetti sulla organizzazione funzionale dell’encefalo, le relative competenze motorie, cognitive ed emozionali in rapporti spaziali; la seconda competenza per l’implicazione dell’immaginario nel disegno e la comunicazione sociale tramite la grafia. I problemi organizzativi della lateralizzazione e l’atteggiamento educativo dei modelli potrà facilmente determinare scompensi che si rifletteranno nell’uso della grafia e in particolare nella scrittura.
L’intervento che favorirà un approccio adeguato a queste importanti organizzazioni funzionali eviterà disturbi del movimento, della lateralità, della percezione e realizzazione spaziale, dismorfismi della colonna e disturbi visivi.
Da sottolineare che il dolore al tratto cervicale (cervicalgia) è un disturbo estremamente comune. Si stima che circa il 75% della popolazione generale sperimenti un attacco di cervicalgia nell’arco della propria vita. L’incidenza è maggiore nel sesso femminile e nella fascia d’età compresa tra i 40 e i 60 anni. È una importante causa di assenza dal lavoro, collocandosi subito dopo disturbi quali lombalgia e depressione. Le posture scorrette del capo durante la scrittura (oltre 1500 ore per anno dai 6 ai 13 anni) influenzano la permanenza di ipertoni al collo e un uso di maggiore attività alle articolazioni del rachide cervicale e determinano una richiesta anomala di adattamento a tutto il rachide, facilitando la progressiva modifica della fisiologica curvatura della colonna e relative rachialgie.
I costi sanitari, anche a distanza, per disturbi della lateralizzazione, per la rieducazione della scrittura, per ginnastiche riabilitative, visite oculistiche e relativi rimedi, sono notevoli e molti potrebbero essere superati da una corretta educazione nell’ambito scolastico e familiare.
Learn MoreEvoluzione dei processi attentivi
Tratto dal libro R.C. Russo Motricità.
Nuovo approccio innovativo sulla valutazione delle competenze motorie sue variabili e relativi effetti.
Casa Editrice Ambosiana
(uscita febbraio-marzo 2020)
Una condizione essenziale per l’individuo umano e comune a tutti gli animali, è la possibilità di valutare gli stimoli ambientali per potere scegliere il comportamento più adeguato alla situazione in base alle proprie esperienze; la sopravvivenza dell’individuo dipende dalla capacità di localizzazione degli stimoli e di adattare il comportamento in funzione della loro valutazione (Rizzolati e Gallese,1988).
Le basi iniziali per l’impostazione funzionale dei processi attentivi sono rappresentate da due centri: il locus ceruleus, sito nella formazione reticolare del tronco dell’encefalo. Nicoll (1982) ha dimostrato che i neuroni del locus ceruleus scaricano in modo elettivo sui neuroni dell’ippocampo eccitandoli, mentre su altri neurori ippocampali hanno funzione inibente; il claustro (situato lateralmente al nucleo lenticolare) viene ritenuto importante per i processi di attenzione visiva in collaborazione con il pulvinar e il collicolo superiore (Crick, 1984).
Il locus ceruleus e il claustro, secondo Posner e Petersen (1990), fornirebbero le basi di attivazione di un sistema attentivo posteriore, (aree parietali, pulvinar, collicolo superiore) con funzione di analisi selettiva degli stimoli e un sistema attentivo anteriore (aree prefrontali, giro del gingolo, area motoria supplementare) con la funzione di valutazione degli stimoli in rapporto alle esperienze e una adeguata scelta comportamentale.
Norman e Shallice (1980, 1986) individuano delle strutture attentive processanti (sistema visivo, sistema uditivo, sistema motorio) con funzioni cognitive specifiche, schemi attentivi di controllo specifici per la situazione in atto, catalogo delle decisioni per la scelta degli schemi appropriati alla situazione e sistema attentivo supervisore con il compito di programmazione, di controllo durante l’azione, di verifica del risultato e di eventuale riprogrammazione dell’azione.
I processi attentivi evolvono nel corso dello sviluppo a partire da una organizzazione precoce comune a tutti gli individui. Tale disponibilità attentiva è già presente nella vita fetale; tra la 12° e la 14° settimana compare lo startel (sussulto) a seguito di stimoli meccanici portati sull’addome materno, verso la ventiquattresima settimane presenta rotazioni del capo a seguito di stimoli meccanici e verso la ventiseiesima settimana modifica la frequenza cardiaca a seguito di intensi stimoli sonori (Ianniruberto e Tajani, 1981). Questi comportamenti potrebbero già essere interpretati come i primi segnali di processi attentivi.
Sulla base di queste e altre iniziali risposte agli stimoli, si organizzeranno, con il progredire delle esperienze e dei processi neuromaturativi, funzioni attentive sempre più elaborate e atte a scegliere il comportamento più adeguato alla situazione in atto.
Per svolgere questo processo verranno implicate diverse strutture: analizzatori dei canali informativi (visivo, uditivo, sensibilità generale, olfattivo), sistema limbico (gratificazione e frustrazione), nuclei ipotalamici (mediazioni metaboliche e neuroendocrine da inviare all’ipofisi), talami (integrazione delle informazioni) il sistema simpatico e parasimpatico (regolazione delle funzioni vitali).
Dalla nascita o poco dopo, a seguito di stimoli visivi associati a movimento e/o a suoni, il neonato evidenzia atteggiamenti con mimica di stupore che si prolungano per 2-3 secondi; nei mesi successivi il bambino mostra un ricco atteggiamento mimico quando compare nel suo campo visivo la madre o altri stimoli particolari. Stimoli uditivi attivano l’attenzione precocemente. Einsenberg (1964) in una ricerca su 170 neonati esaminati tra la 3ᵃ e la 120ᵃ ora dalla nascita, con una serie di suoni diversi, d’intensità di 65 decibel, ha dimostrato quattro tipi di risposte: riflesso di Moro, chiusura palpebrale, attenzione, orientamento allo stimolo. Queste risposte stimolo-movimento, stimolo-difesa, stimoloattenzione, stimolo-orientamento che implicano l’intervento di diverse strutture, possono essere sottese da un unico primitivo obiettivo: la risposta ad uno stimolo eccitante il processo attentivo, diversificata nei neonati a seconda del valore soglia di accesso al tipo di risposta. Va ancora ricordato che il bambino alla nascita ha già una sua complessa organizzazione funzionale che si diversifica da individuo a individuo, pur rimanendo in un range normale.
I movimenti oculari nei primi10-15 giorni tendono a essere dipendenti da stimoli vestibolari (riflesso degli occhi da bambola), ma può essere presente un precario inseguimento visivo di stimoli luminosi in lento movimento, realizzato da ampi e incostanti movimenti saccadici; tale processo usufruisce della via collicolare (Aslin, 1981). Tra il 1½ – 2 mesi la fovea inizia a svolgere le sue competenze, riesce a discriminare i particolari (Actinson, 1984) e iniziano i movimenti oculari attivi di inseguimento degli stimoli in movimento. Questa capacità migliorerà nei mesi successivi.
Nei primi mesi è presente una barriera difensiva, costituita da soglie alte per i diversi stimoli, per permettere al lattante l’elaborazione graduale per non rischiare di esserne inflazionato da una quantità e/o intensità eccessiva. Alla nascita il fuoco è fisso a circa 20 centimetri, il cristallino inizierà tra un mese mezzo e i due mesi; l’acuità visiva è molto bassa (1-2 decimi), il campo d’attrazione è limitato e in questo primo mese l’esplorazione visiva indaga prevalentemente i contorni del viso rispetto allo sfondo, pertanto dominano i contrasti tra la figura e lo sfondo. Nel corso del secondo mese si assiste ad una esplorazione allargata del viso nei suoi particolari costitutivi (Aslin e Salapatec, 1975).
Questa limitazione spaziale condiziona il neonato a centrarsi sulla figura umana (in particolare il viso della madre), fatto che permetterà la prosecuzione della vita precedente (uterina) tramite l’aggancio positivo al nuovo ambiente di vita.
Un altro problema per l’evoluzione dei processi attentivi è rappresentato dalla possibilità di distogliere il centraggio su uno stimolo (per esempio il viso della madre) per prestare attenzione ad un altro stimolo. Posner e Peterson (1990) hanno chiamato questi processi disancoraggio e ancoraggio, le aree parietali per il disancoraggio, il pulvinar per il nuovo ancoraggio e i collicoli per lo spostamento dell’attenzione.
L’atteggiamento di stupore per un nuovo stimolo e il tempo in cui permane lo stupore costituisce il tempo necessario per il processamento dello stimolo al fine di mettere in atto il comportamento desiderato o consequenziale allo stimolo. Il tempo di processamento si abbrevia nel corso evolutivo in base alla quantità e qualità delle esperienze e in accordo con le caratteristiche personali.
Le modalità di attenzione agli stimoli (Norman e Shallice, 1980-1986) verranno appresi a seconda delle condizioni ambientali e dei modelli educativi, pertanto potranno essere molto variabili a seconda del tipo d’ambiente. Per maggiore comprensione delle variabili evolutive dei processi attentivi è sufficiente considerare la diversa disponibilità attentiva di un individuo che vive nella giungla, rispetto a quello che vive in una grande metropoli.
Oltre alle esperienze condotte dal bambino di sua iniziativa e analisi dei risultati, va anche tenuta in considerazione, per i processi attentivi, l’importanza educativa impartita e la preparazione difensiva (“stai attento, guarda dove vai”, “ma non l’hai visto?”, “la prossima volta te lo ricorderai”, ecc..).
Di norma, l’analisi delle varie disfunzioni attentive viene fatta sul singolo “portatore del disturbo”. Ci si sofferma sull’osservazione dettagliata dei sintomi e dei relativi comportamenti, per cui, la presenza di determinate costanti conferma la disfunzione stessa.
Frequentemente il bambino, visto come singolo individuo, è il portatore disfunzionale, quasi decontestualizzato, il suo ambiente è preso in considerazione per le conseguenze che il comportamento disturbante del bambino arreca all’ambiente stesso (familiari, insegnanti, compagni, ecc.). Vi è la difficoltà di prendere in esame l’ambiente come il luogo, in cui sorgono e si strutturano i processi attentivi. Ciò può avvenire anche per il bambino con sindrome dell’attenzione (ADHD), la cui eziopatologia è varia, articolata, con una pluralità di fattori, che concorrono sia alla sua genesi sia alla permanenza e al rafforzamento. Il contesto ambientale fornisce il clima psico-emozionale e i processi interattivi in cui si sviluppa la disfunzione.
Va evidenziato che qualunque possano essere le cause della disfunzione, il bambino nasce, cresce e sviluppa la struttura della personalità all’interno di un sistema principale, costituito dal nucleo familiare. L’ambiente familiare con il suo clima può accentuare, limitare o contenere la disfunzione a volte già presente alla nascita per atteggiamenti di risposte frequenti ed esaltate agli stimoli ambientali. Le basi psicoaffettive del bambino si strutturano in famiglia, che offre non solo gli stimoli, ma anche il contesto emozionale, nel quale il bambino già prima di nascere si trova inserito.
Il clima familiare crea l’ambiente e la rete relazionale, in cui il bambino cerca una sua chiara posizione psicoaffettiva come realtà autonoma e nello stesso tempo interdipendente. Un deficit nel processo identificatorio degli stimoli di più alto valore affettivo può causare arresti, inibizioni, espansioni irregolari (falso sé), instabilità di base e anche un eccesso di attenzione agli stimoli intercorrenti per disorientamento.
Da un punto di vista psicodinamico un bambino è ipercinetico o inibito perché fatica a trovare la sua collocazione sulle coordinate fondamentali dell’esistenza: lo spazio e il tempo. Egli sviluppa il primo spazio e il primo tempo, interni ed esterni, nello spazio e nel tempo del sistema familiare.
“Vi è la convinzione che l’esperienza del sé sia drasticamente dipendente dal contesto: vale a dire, radicata in specifici contesti relazionali […] In quest’ottica, tutte le caratteristiche e l’essenza stessa del sé – inclusi i pattern stabili della personalità e della patologia – si sviluppano e sono mantenuti all’interno dello scambio reciproco fra soggettività di cui sono anche funzioni” (D.M. Orange, G.E. Atwood, R.D. Stolorow, 1999). Le condizioni intesoggettive danno origine e mantengono particolari configurazioni soggettive sia nelle situazioni gratificanti che frustranti.Tag: evoluzione, psicomotricità, infanzia, motricità
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